Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 20 marzo 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La schizofrenia, diagnosticata in base a sintomi positivi, quali deliri e allucinazioni, sintomi negativi, come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o inappropriato, deficit di attenzione e memoria, in persone che presentano spesso stereotipie di moto, ha un’eziopatogenesi ancora indeterminata, sebbene sia uno dei più gravi disturbi psichiatrici cronici. L’importanza dei fattori genetici non è messa più in discussione ma, sebbene oggi si disponga di una lunga raccolta di geni candidati e di rischio, il rapporto fra questi alleli – e/o le interazioni gene-gene e le loro espressioni endofenotipiche – e la patogenesi della psicosi è ancora ipotetico. Se si rifiuta l’ipotesi del nostro presidente, ossia che meccanismi eziopatogenetici molecolari differenti possano portare allo stesso quadro psicopatologico clinico, diventa priorità assoluta l’individuazione di un processo patogenetico che spieghi tanto il ruolo di geni differenti quanto quello delle condizioni ambientali, nel senso più estensivo del termine, che vada dai fattori ad azione epigenetica all’apprendimento cognitivo, passando per l’ontogenesi prenatale e post-natale.

Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo della schizofrenia[1] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi noxae evolutive portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi neurodegenerativi.

Il motivo del successo di questo modello è dato dal “sostegno” ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza di capire perché e come le “noxae” causino una displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[2].

Proprio il legame tra fattori genetici e meccanismi patogenetici potrebbe aprire la via per la comprensione anche del ruolo e del modo in cui intervengono i fattori ambientali. Chiarire questi aspetti, almeno in via preliminare, potrebbe consentire di risolvere alcuni problemi dell’insegnamento della clinica psichiatrica delle psicosi. In proposito, Giovanna Rezzoni faceva notare le contraddizioni del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric Association:

“Nel DSM-5 si riporta un forte contributo di fattori genetici all’eziopatogenesi della schizofrenia ma, subito dopo, si legge dell’assenza di storia familiare di psicosi nella maggior parte dei casi[3]. Al contrario, nell’edizione precedente si citano dati desunti dagli studi epidemiologici maggiori di quegli anni, che riportano una probabilità di sviluppare schizofrenia di 10 volte superiore alla popolazione generale per coloro che abbiano un parente biologico di primo grado affetto, e un tasso di concordanza fra gemelli monozigoti più elevato di quello registrato fra gemelli dizigoti”[4].

La via da percorrere è sicuramente lunga, ma alcuni gruppi di ricerca hanno cominciato a compiere i primi passi prendendo le mosse dallo splicing alternativo di geni di rischio per la schizofrenia, quali DRD, GRM3 e DISC1, sebbene le caratteristiche di questo processo rimangano in molti casi ancora oscure.

Chu-Yi Zhang e colleghi, analizzando in dettaglio tutto quanto è emerso dalla ricerca recente in questo campo, offrono interessanti dati a sostegno di questa ipotesi patogenetica.

(Zhang C-Y., et al. An alternative splicing hypothesis for neuropathology of schizophrenia: evidence from studies on historical candidate genes and multi-omics data. Molecular Psychiatry – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41380-021-01037-w, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Center for Medical Genetics and Hunan Key Laboratory of Medical Genetics, School of Life Sciences, Central South University, Changsha, Hunan (Cina); Key Laboratory of Animal Models and Human Disease Mechanisms of the Chinese Academy of Sciences and Yunnan Province, Kunming Institute of Zoology, Chinese Academy of Sciences, Kunming, Yunnan (Cina) and other 14 institutes of national (China) relevance.

Prima di esporre in breve i contenuti dello studio qui recensito, si propone un’introduzione alla clinica della psicosi schizofrenica tratta da una nostra precedente pubblicazione:

“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza praecox.

Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.

Lo stesso Eugen Bleuler[5], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.

A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.

Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[6]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.

Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[7], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.

Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[8]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della “reazione maggiore”, contrapposta alla “reazione minore” costituita dai disturbi d’ansia”[9].

Chu-Yi Zhang e colleghi hanno esaminato in dettaglio i risultati delle analisi trascrittomiche eseguite su cervelli umani, che possiamo dividere in due gruppi: 1) sequenziamento RNA SR (short-read); 2) sequenziamento RNA LR (long-read).

1)      Le analisi SR RNA-seq hanno consentito di scoprire molti eventi locali di splicing (es.: exon skipping junctions) associati al rischio genetico di schizofrenia, e ulteriori caratterizzazioni molecolari hanno identificato nuove isoforme ottenute per splicing, quali AS3MTd2d3 e ZNF804AE3E4.

2)      Le analisi LR RNA-seq di geni di rischio per la schizofrenia (es.: CACNA1 e NRXN1) hanno rivelato numerose isoforme precedentemente non rilevare e abbondanti nel cervello, con potenzialità per lo sfruttamento terapeutico.

L’analisi funzionale di KCNH2-3.1 e di Ube3a1 hanno fornito esempi per l’indagine di tali isoforme spliced in vivo e in vitro.

Questi risultati suggeriscono che lo splicing alternativo può essere un meccanismo molecolare essenziale sottostante il rischio genetico di sviluppare la psicosi, ma le incomplete annotazioni dei trascrittomi cerebrali umani possono aver limitato la nostra comprensione della patogenesi della schizofrenia e – sottolineano gli autori dello studio – è necessario un impegno ulteriore della ricerca per determinare con precisione queste caratteristiche trascrizionali e ottenere conoscenza della fisiologia e della patologia del cervello connesse allo stato psicopatologico, e infine poter tradurre le scoperte genetiche in nuovi bersagli per terapie più efficaci di quelle attuali e con minori effetti indesiderati.

Noi osserviamo che Chu-Yi Zhang e colleghi presentano in maniera ordinata ed efficace la rassegna dei maggiori risultati sperimentali in questo campo, ma non propongono alcuna concettualizzazione unificante dei fenomeni patogenetici secondo lo splicing alternativo, né aggiungono nuove idee o interpretazioni alle tesi implicite nelle ipotesi di lavoro dei gruppi di ricerca attivi nella verifica di questa possibilità.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura dei numerosissimi scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-20 marzo 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Note e Notizie 16-02-19 Nella schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.

[2] È evidente la costruzione deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici, butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.

[3] Cfr. AAVV., Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-5, American Psychiatric Association, p. 103, American Psychiatric Publishing, Washington DC 2013.

[4] Note e Notizie 02-11-19 Interazione fra genetica e ambiente nella schizofrenia.

[5] Sulla storia delle origini della diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.

[6] Le nozioni storiche riportate di seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.

[7] Ai coniugi Vogt è intitolato un istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli. Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente superiori alla media.

[8] Sicuramente una parte non trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei punti di vista che resistevano da decenni.

[9] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19 Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.